Le nanoplastiche stanno emergendo come una delle minacce ambientali e sanitarie più silenziose e pervasive del nostro tempo. Invisibili, persistenti e capaci di penetrare nell’organismo umano, queste particelle microscopiche si stanno accumulando ovunque: dai mari ai ghiacciai, fino al nostro sangue. Una recente ricerca guidata da Sanat Kumar della Columbia University, pubblicata su Nature Communications, ne ha rivelato il meccanismo di formazione e ha rilanciato un paragone inquietante: quello con l’amianto del secolo scorso.
Come nascono le nanoplastiche?
A dispetto di quanto si possa pensare, non servono frantumazioni violente o condizioni estreme per generare nanoplastiche. I ricercatori hanno dimostrato che la struttura molecolare dei polimeri plastici, in particolare quelli semi-cristallini (che rappresentano circa l’80% delle plastiche in uso), li rende naturalmente inclini a spezzarsi nel tempo.
Questi materiali sono formati da strati rigidi e flessibili alternati. Le zone più morbide, dette amorfe, tendono a degradarsi con il calore, la luce ultravioletta o l’esposizione chimica. Quando queste cedono, rilasciano le porzioni cristalline circostanti, che si trasformano in particelle nanometriche estremamente stabili: le nanoplastiche.
Con dimensioni comprese tra 0,001 e 0,1 micrometri, queste particelle sono in grado di attraversare barriere biologiche, accumularsi nei tessuti e resistere alla degradazione per tempi lunghissimi.
Un rischio sanitario simile all’amianto?
Le somiglianze tra nanoplastiche e amianto non si fermano alla dimensione o alla resistenza. Le nanoplastiche, una volta ingerite o inalate, possono penetrare nelle cellule, e alcune ricerche suggeriscono che potrebbero perfino raggiungere il nucleo cellulare, interferendo con il DNA.
La loro forma allungata e la capacità di persistere nei tessuti ricordano da vicino le fibre di amianto, notoriamente legate a gravi patologie come l’asbestosi e il mesotelioma. Sebbene non ci siano ancora prove conclusive sulla cancerogenicità delle nanoplastiche, gli indizi accumulati spingono gli scienziati a trattarle con estrema cautela.
Un inquinamento globale e silenzioso
Le nanoplastiche sono state rilevate nei mari, nell’aria, nei suoli, nel cibo e persino nel sangue umano. Sono state trovate perfino nelle nevi dell’Antartide, dimostrando la loro capacità di dispersione globale. Questo tipo di contaminazione è particolarmente preoccupante perché invisibile e impossibile da rimuovere con i sistemi di filtraggio tradizionali.
Serve un cambio di rotta
Il gruppo di ricerca guidato da Kumar lancia un messaggio chiaro: non basta riciclare. È fondamentale ripensare la chimica dei polimeri, progettando plastiche che non si frammentino in modo spontaneo e pericoloso. Allo stesso tempo, serve investire in tecnologie di rilevamento e filtrazione più sofisticate, per contenere un fenomeno che potrebbe diventare la “crisi dell’amianto” del XXI secolo.
Conclusione: le nanoplastiche rappresentano una minaccia concreta, silenziosa e globale. Come l’amianto, rischiano di lasciare conseguenze sanitarie profonde e durature. Ma oggi, a differenza del passato, possiamo agire in tempo. E farlo non è più solo una scelta ambientale: è una responsabilità verso la salute pubblica.
Fonte: Techno Science
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